
La Sibilla Appenninica, detta anche Sibilla Picena, non rientra tra le dieci
Sibille dell'epoca classica riportate da
Marco Terenzio Varrone, nonostante le prime fonti su questa figura risalgano all'inizio dell'era
imperiale.
Un primo riferimento storico riconducibile alla Sibilla Appenninica si trova nella
Storia dei Cesari di
Svetonio, che, a proposito di
Vitellio, accenna ad una veglia negli
Appennini tenuta prima del suo ingresso a
Roma nel
69[1]:
(
LA)
« In Appennini quidem iugis etiam pervigilium egit »
(
IT)
« Sulla sommità dell'Appennino si fece anche una veglia »
Anche
Trebellio Pollione nella sua
Storia Augusta riporta un episodio relativo a
Claudio il Gotico, che, nel
268, consultò sul suo futuro un oracolo negli Appennini:
[2](
LA)
« Item cum Appennino de se consuleret, responsum huius modi accepit »
(
IT)
« Analogamente, quando negli Appennini chiese del suo futuro, ricevette il seguente responso »
Con l'avvento del
Cristianesimo, l'origine
pagana della Sibilla ne provocò un'interpretazione demoniaca, che è evidente nel
romanzo cavalleresco Il Guerrin Meschino, scritto da
Andrea da Barberino.
In questo racconto, ambientato nell'anno
824, un cavaliere si reca presso la
Grotta della Sibilla, sui
monti Sibillini, per conoscere l'identità dei suoi genitori, ma la Sibilla lo trattiene tentandolo a peccare e rinnegare Dio.
Questa interpretazione infernale è progressivamente incupita nelle successive versioni del romanzo, stese nel periodo dell'inquisizione (come quella del
1785 pubblicata a
Venezia), nelle quali la figura della Sibilla è addirittura sostituita da quella della
Maga Alcina.
La fama della Sibilla era tale che
Agnese di Borgogna inviò
Antoine de La Sale a visitare la sua grotta il
18 maggio 1420. Da questa visita nasce Il Paradiso della Regina Sibilla, il diario di viaggio nel quale riporta disegni particolareggiati e descrizioni della grotta.
Sulla più antica trama della leggenda della Sibilla Appenninica, a cui si erano ispirati sia
Andrea da Barberino sia
Antoine de La Sale nel
XV secolo, nacque in
Germania, sin dalla fine del trecento, la leggenda del valoroso cavaliere Tannhäuser che si reca a
Monte Sibilla, chiamato Venusberg, (Monte di
Venere) e dopo essere stato per un anno tra le braccia di Frau Venus, da cui il nome Frau Venus Berg per la grotta, si reca dal Papa Urbano IV per avere l’assoluzione dai suoi peccati. Non la otterrà e ritornerà fra le braccia della sua tanto amata Venere. Il finale nella rielaborazione tedesca della leggenda s’inverte rispetto a quello del Guerrino e il Papa sarà condannato per l’eternità. È alla variante Tedesca della leggenda della Sibilla Appenninica e particolarmente all’
eros trionfante nel finale che si ispirò
Wagner per il suo
Tannhäuser.
[3]Secondo la tradizione locale, la Sibilla è una
fata buona, veggente ed incantatrice, ma non perfida o demoniaca circondata dalle sue ancelle che scendono a valle per insegnare a filare e tessere le lane alle fanciulle del posto.
Simile a questa è la tradizione per la quale le fate sarebbero donne bellissime con piedi caprini, che di notte frequentano le feste ed i balli dei paesi, ma devono ritirarsi sui monti prima dell'alba: alla fuga precipitosa da una di queste feste nella quale si erano attardate, la leggenda fa risalire la Strada delle Fate, una
faglia a 2000 metri sul
Monte Vettore.
Altra
leggenda è quella che vede la regina Sibilla e le sue fate come donne bellissime, ma che si trasformano ad ogni fine settimana in serpenti, che nella tradizione celtica è simbolo di fertilità e guarigione, per il fenomeno della
muta della pelle di questi animali.
Sempre secondo la tradizione locale, fu la Sibilla a scaraventare sull'antico paese di Colfiorito una pioggia di pietre per punire gli abitanti per la loro mancanza di rispetto nei confronti delle sue fate. Gli abitanti abbandonarono questa località, ma successivamente un popolo nomade rifondò il nuovo paese di
Pretare, stringendo legami di forte amicizia con le fate stesse.